Faust di A.Sokurov, itinerari demoniaci e anarchici nomadismi

Faust, in tedesco, “pugno”, proprio come il degenerato e doloroso film di Sokurov, quello che chiude la tetralogia del potere.
Un pugno nello stomaco. Un fulmine scagliato su terre di nessuno. Un lancinante e labirintico inferno terreno. Opera di pieni e vuoti, d’essenza e consistenza. Soprattutto, una mirabile sintesi di corporalità e pulsioni materiche, istintuali.
Verrebbe da pensare al “metamorfico” Cronenberg delle incessanti trasformazioni o al surreale Bergman del “Fanny e Alexander” o ancora, alle opere di Tarkovskij. Accostamento, quest’ultimo, da sempre aborrito dall’autore russo Sokurov.
Ma non reggono i paragoni, così come i confronti con le altre opere presentate al festival della Serenissima. Siamo in presenza di un capolavoro, di un film talmente altisonante, criptico ed ermetico. Fa pensare ad un’opera totale, racchiusa su se stessa.
Il mezzo che Sokurov sceglie è quello di infastidire il pubblico, di nausearlo e stordirlo con l’esasperazione di dialoghi serrati e sequenze concitate, parossistiche. Ad aiutarlo è la scelta di una fotografia livida, tesa ad esaltare la cupezza degli scenari e la particolareggiata simbologia stregonesca.

Esistenzialismo e potenza visionaria sono i due capisaldi di un’opera che racchiude una sintesi dei precedenti film sokuroviani. Ricordiamo che i suoi film sono dedicati al potere, alle carismatiche e perverse personalità che hanno piegato al loro volere la storia. Anzi, alle storie di interi popoli, di enormi comunità umane.
Adattamento
non propriamente filologico del Faust di Goethe e del Doctor Faustus di T.Mann, con echi e riverberi della rilettura di C.Marlowe in lingua originale tedesca, quasi a sottolineare il legame intrinseco con l’ideologia nazista del potere incarnato in terra.
Nessun prologo in cielo, o meglio, un prologo visionario, minimale e di sospensione, senza Dio o Satana, ma con oggetti levitanti ed eterei, preludio al male che verrà, alla dannazione che regnerà sovrana.
L’universo del dottor Faust è mefistofelico. Chiuso ermeticamente dal resto del mondo e vi domina un’atmosfera greve, percepita o anche solo immaginata. È un microcosmo basso, sudicio, lercio e orrido, come catrame misto a carni marcescenti. 
Insomma, siamo in presenza di un enorme, caotico e disorientante mattatoio terreno. A questa visione così poco sublime che rimanda la prima sequenza, con l’organo genitale esibito e le viscere che scivolano dal corpo squarciato di un uomo.
Sokurov, alla maniera del demonio, chiede di sancire un patto con lo spettatore. Si deve pagare un prezzo per penetrare nell’insondabile. Il prezzo è l’estetica repellente di una matericità che occlude ogni istinto benevolo o etereo sogno.
Se accettiamo il male, accettiamo anche il bene. Non è d’accordo l’assistente del medico-teologo, Wagner, il quale ricade, senza possibilità di risalita, nell’inferno del suo primigenio “Homunculus”, specchio o nemesi del suo padrone. Difatti la strada che apre le porte dell’infinità è quella del male esiziale.
Ogni personaggio segue un itinerario che s’incrocia con quello dell’altro, sono tutti viandanti. Il senso ultimo è quello di esaltare un nomadismo anarchico, senza appigli. Nessuno degli attori può essere intimo protagonista. A meno che non si palesi in lui la carta vincente che regga questo gioco di cammini condivisi: il gusto dell’azzardo.

Senza l’ambizione esasperata in questa vita, nulla si stringe nell’aldilà, senza l’egida protettiva e pervertibile dell’abominio in terra. Nessun viaggio può avere inizio. L’umanità dei viaggiatori scalpita, freme, si agita e scalcia. Cerca quasi di saltar fuori dalla scena, ove tutto è carne, tutto è sangue e l’intero film è spettacolo esibito, carico di autocompiacimento ed esaltazione narcisistica.
Le inquadrature sghembe e senza colore (quasi tendenti al grigio-verde) definiscono al meglio questo percorso di devianza e malessere.
Un film cattivo, truce, ove la perdizione lascia il posto a quegli immensi scenari che raggiunge Faust alla fine, ove si smarrisce, si autoelogia per essere l’unico e solo, e dove la sua anima si perde per sempre.

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