Ciao Shelly! Con te, dopo 20 anni, se ne va una parte di me

Non ci voglio neanche pensare. Il mio dolore è tangibile. Manifesto. Se ci penso piango. Singhiozzo. Shelly, una delle famiglia, dopo circa 20 anni, è morta. Era la mia gatta. La mia tempestina, come la chiamava il veterinario. La mia panterina, come la chiamavano i miei fratelli. Mia sorella. Così la chiamavo io. Insomma, una di famiglia. Il sesto componente del mio nucleo familiare.

20 anni. Io ne ho 32 anni. Siamo cresciute insieme. Lo ripeto. È una della famiglia. E oggi piango. Dal “devi rassegnarti” al “stavo soffrendo” fino a “in fondo era solo un animale”. So tutto questo. Tranne sull’ultima affermazione. Non può essere sono un animale.

Abbiamo sbagliato a casa. L’abbiamo umanizzata, espressione utilizzata fin dai primi anni dal veterinario. Ma come si fa a non umanizzare un animale che entra talmente in empatica con te da considerarlo uno di famiglia. Non un semplice animale. Appunto.

Negli album fotografici c’è anche lei. Fin da quando era un batuffolo nero. Era il 1997, dicembre quando è arrivata a casa. Aveva poco più di un mese.
Un po’ come accade per l’adozione, noi l’abbiamo adottata. Non mi piace usare l’espressione “ce l’hanno regalata”. Non è un oggetto. Né quanto meno un semplice animale. Shelly è una della famiglia. Dunque abbiamo adottato Shelly, con l’iniziale scetticismo da parte di mio padre.

I primi anni il rapporto tra Shelly e mio padre è stato di indifferenza. Non da parte della gatta. Ma da parte di mio padre. Non è mai stato particolarmente amante degli animali. Probabilmente c’è un trauma dietro di cui non ci ha mai parlato. Tuttavia, se ci penso, rido. Negli ultimi anni, soprattutto da quando io vivo a Roma, mio fratello si è sposato e l’altro mio fratello sta spesso fuori casa, papà l’ha nutrita e pettinata. Le ha il buongiorno e l’ha portata dal dottore. L’ha finalmente accettata. E amata. Fino ad oggi. Fino al suo ultimo respiro. Si sono guardati negli occhi. Già. Proprio loro due. 

Gli occhioni dolci non li faceva solo con mio padre, che ha conquistato – nel bene e nel male – nel corso degli anni. Li faceva ai miei fratelli. Ma si tratta di un amore diverso.
Con Umberto, quello che si è sposato, si scioglieva. Letteralmente. Diventava quasi liquida. Viziata all’ennesima potenza. Con lui, otteneva tutto ciò che voleva. Coccole e cibo sempre fresco (anche se era stato cambiato 20 minuti prima).
Con Fabrizio, che sta spesso fuori casa, aveva un rapporto più ludico. Un compagno di giochi. La galvanizzava. Letteralmente. Si elettrizzava, correva per casa. Forse era anche permalosa, perché spesso a vincere nei giochi era Fabrizio. Anche perché, parliamoci chiaro, mio fratello è un gigante e forte. Lei piccina. Insomma, se la faceva prendere sempre a male. Bella mia.

Con mia madre, Shelly è stata figlia e poi una compagna nelle giornate di solitudine, tra dolori fisici e psicologici. Oltre 10 anni fa, a mia madre le è stata diagnosticata l’artrite remautoide. Una malattia invalidante. E se colpisce una donna che fino a prima era indipendente, la sua mente sprofonda in una depressione difficile da curare. Già. E quando le sono arrivati i primi, lancinanti dolori, quando voleva stare nel letto per ore, in camera da letto al buio, Shelly era con lei. Le si coricava sulla pancia, sulla testa, accanto. Poteva trascorrere una giornata intera senza mangiare, senza andare al bagno. Stava lì con mia mamma. Le ha fatto compagnia. E mia madre ha fatto compagnia a Shelly.

Con me è stata una sorella. Quando c’era da rimproverarla, l’ho rimproverata. Quando c’era da coccolarla, l’ho coccolata. Quando è stata ricoverata, durante i miei esami di maturità, io sono stata con lei. Ho album pieni di foto sue. Le ho parlato come fosse un’umana. Una sorella. Appunto. Mi sono illusa tante volte che potesse rispondermi. Ma in realtà lo ha fatto con gli occhi, con il suo corpicino.

Quest’estate i miei mi hanno detto che Shelly non è stata spesso bene. Ha avuto delle crisi epilettiche. A due ho assistito anche io. La prima è stata terribile. Sono stata male per due giorni.
Insufficienza renale, crisi, anzianità. Aggiungi il caldo estivo. Ma nonostante questo, con il mio ritorno a casa per quei pochi giorni di ferie che ho avuto, lei si era ripresa. Aveva appetito. Usciva sul balcone. Pretendeva che la pettinassi.

Quando sono rientrata a Roma, ha avuto un’altra ricaduta. Probabilmente, come fanno spesso gli anziani, si è lasciata andare. Non aveva più voglia di vivere. O meglio, in fondo, ha vissuto. Anche tanto se si considera la vita media di un gatto domestico.

Sono giorni che piango. Lontana da lei. Mi illudo che pensasse anche a me. Come io ho pensato a lei. Shelly. Shellina mia.
Chi mi passerà al telefono mia madre la sera, risultando una fuori di zucca agli occhi degli altri?! Chi mi accoglierà zompettando per le scale del palazzo?!
Chi si piazzerà sulla tastiera del pc mentre sto lavorando?!
Chi mi farà da borsa d’acqua calda quando mi vedo un film nel periodo di Natale?!

Sto male. Davvero male ad averla persa. Sarà strano non averla per casa, al mio rientro. Non userò più le mie vocine per chiamarla. Non potrò farle più le foto.

Mi ricorderò sempre i suoi “regali” tra piccioni e passerotti portati in casa agonizzanti. Uno lo portò sopra il letto, consegnato direttamente a mia madre che non stava bene. Le enormi quantità di mosche mangiate. Le lunghe passeggiate sulla ringhiera del balcone. Le urla nel cuore della notte. Con i miei fratelli abbiamo cercato di zittirla tornando all’alba. Invano chiaramente. Il suo calore che durava più del necessario. Le sue fuse. Le pupille dilatate. I salti da un mobile all’altro. I giochi a nascondino. Quelli soprattutto con me. Gli agguati fatti a mio padre. Le sue dormite nei vasi con la terra d’estate (?!). La sua richiesta di pollo quando lo cucinava mamma. Il suo stendersi lunga lunga sulle mattonelle calde d’inverno. Il suo voler bere dal bidet con l’acqua corrente. E tantissime altre cose che ai nostri occhi sono sempre risultate delle esclusive stranezze.

Proprio questa mattina ho parlato con mio fratello dell’eutanasia. Ne ho parlato con un’amica veterinario. Con amici e colleghi “gattari”. Stavo prenotando un biglietto per tornare in Calabria. Avrei voluto salutarla. L’ultimo saluto. L’ultimo “amorina mia” guardandola negli occhi. L’ho salutata qualche settimana fa. Ma speravo resistesse fino a dicembre. Non ce l’ha fatta. È morta oggi pomeriggio. A salutarla sono stati miei genitori. Spero non abbia sofferto. Spero solo in quello.
Ciao Shelly! Con te, dopo circa 20 anni, se ne va una parte di me.

 

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