Inclusività: non nascondiamoci dietro l’ironia

Si parla tanto di Diversity, Equity and Inclusion, ma forse non abbastanza. Non nella vita di tutti i giorni. Non nello scrolling sui social network.
Se da un lato, a livello “alto” (come si usa dire nelle aziende corporate) e quindi a livello teorico (ammettiamolo!) si fanno wave e wave di campagne di comunicazione su come usare un linguaggio più inclusivo, con l’obiettivo di essere più equi e creare ambienti diversificati e quindi aperti alle diversità; dall’altro, a livello “basso” e quindi a livello pratico, lo sforzo di essere davvero inclusivi è davvero minimo.
A dir la verità, più che sforzarsi, il discorso si sposta su un altro piano. Ovvero, si sale sulla cattedra dell’ironia. E di fronte si avrà una classe divisa tra chi “e fattela una risata” e chi “non dovremmo usare più determinati termini”.

Si dice SORDO, non SORDOMUTO

La premessa di cui sopra era necessaria perché mi vorrei soffermare su un esempio concreto di DE&I. Ossia la sordità. Come spiega bene ENS, la sordità è una “disabilità complessa perché diverse variabili la rendono un percorso unico e differente da persona a persona: possono variare gli input linguistici, i percorsi educativi, (ri)abilitativi, i contesti familiari che possono o meno avere altri componenti sordi e altri fattori. Non si può pensare a una rappresentazione univoca della persona sorda, delle sue esigenze e aspettative”.

È presenta anche una legge sul tema. La legge n. 95 del 2006 stabilisce che il termine “sordomuto” è stato modificato in “sordo” nelle disposizioni legislative vigenti:
“la ragione di tale intervento è stata dettata dalla volontà di eliminare qualsiasi legame fra il fenomeno della sordità e quello del mutismo, che normalmente non esiste. Nel testo di legge originario il termine “sordomuto” sarebbe dovuto cambiare in “sordo preverbale”; tuttavia, tale intervento è apparso ulteriormente discriminante per le associazioni di categoria, che attraverso varie forme hanno chiesto di cambiare l’impianto normativo in questione e di prevedere un termine più appropriato per riconoscere le persone affette dall’handicap della sordità, eliminando il riferimento anche al “mutismo”.”

Finalmente anche nei film, si sta iniziando ad utilizzare la terminologia corretta. Pensate al remake C.O.D.A., vincitore agli Oscar nel 2022 come miglior film e come migliore attore protagonista. È stata la prima produzione cinematografica sulla cultura sorda e sulla sordità.
Non tutti i media, ma la maggior parte hanno scritto correttamente: non sordomuto, ma sordo. Non non udente, ma sordo. Non linguaggio dei segni, ma lingua dei segni.

Eppure… non è ancora abbastanza.

La leggerezza dell’ignoranza regna sovrana

Arriva l’esempio sul perché ancora non se ne parla abbastanza su un piano di realtà.
Mi è capitato di vedere e ascoltare (soprattutto) un reel di Beatrice Arnera, una comica, attrice e cantante.
Il topic del contenuto su Instagram è dedicato sulla gravidanza e a quel fastidio che si prova quando alle gestanti viene toccata la pancia senza il loro consenso.
Nel coinvolgere una donna incinta presente nel pubblico, la quale però non riusciva a sentire la domanda della comica, quest’ultima l’ha definita SORDOMUTA. L’ironia della sorte è che nel video ci sono anche i sottotitoli.

Quasi 10 anni fa e per curiosità, ho studiato e superato il primo livello di LIS. Da allora, avendo compreso la lingua, la cultura sorda e tante altre cose, nel mio piccolo e dal basso, ho cercato di sensibilizzare chiunque incontrassi sul tema in oggetto. Quasi come un mantra. Perché non è semplice.
Pensate che solo nel 2021, l’Italia ha riconosciuto ufficialmente la LIS in quanto lingua dei segni nazionale. Il Bel Paese è stato uno degli ultimi Paesi in Europa in questo, ma finalmente ha colmato questo grave ritardo. Si è trattato di un importante segno di civiltà e di conquista. Non solo per le persone sorde, ma per tutte le italiane e italiani.
L’Art. 34-ter del cosiddetto Decreto Sostegni recita: “La Repubblica riconosce, promuove e tutela la lingua dei segni italiana (LIS) e la lingua dei segni italiana tattile (LIST)“.

Tutto questo mi ha aiutato ad avere un approccio più inclusivo. Ora, è chiaro che, ascoltando la comica, ho avuto un brivido. E ho commentato dicendo quello che dico a tutte e tutti: “non si dice sordomuto, si dice sordo”.
Fortunatamente, non sono stata l’unica.
Essendo su un social network, c’è stato quello schieramento da classe divisa in due schieramenti. Da un lato si invitata la comunica a riflettere sul fatto che non si usa più il termine sordomuto, dall’altro numerosi utenti, etichettandoci in diversi modi coloriti, ci invitavano a farci una risata e a prendere l’accaduto con leggerezza. E fin qui…
Ciò che non mi è piaciuto è che la comica anziché prendere le distanze da un evidente errore e riflettere su questo, ha rincarato la dose rispondendo così: “guarda adesso eh, il sordomuta gate”, poi ha linkato un articolo dell’Accademia della Crusca, e ci ha definite/i “stracciaca**i”.

Sensibilità, gentilezza e consapevolezza. C’è ancora tanta strada da percorrere

Tra i commenti in difesa della comica, mi è stato detto che volessi fare la saccente. Lungi da me.
La mia volontà è tentare di diffondere maggiore consapevolezza, per sposare un approccio più sensibile e gentile, adottando un linguaggio più inclusivo.
Nell’era dei social network, io “valgo” poco come cassa di risonanza. Una persona come Beatrice Arnera, con 563K di followers solo su Instagram, direi che avrebbe un peso diverso. E sì, potrebbe aiutare a sensibilizzare sul tema.

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